La redazione di Cuma (Collana Universitaria Moderna Amos) è disponibile a valutare proposte di monografie, atti di Convegni e manuali universitari. Assicura, su richiesta, il servizio di peer review certificato.
Vladimir Kantor – DOSTOEVSKIJ IN DIALOGO CON L’OCCIDENTE
(a cura di Emilia Magnanini)

Dostoevskij è uno scrittore di frontiera. I suoi personaggi sono legati alla fanghiglia e alla nebbia di Pietroburgo. E anche Pietroburgo, la città più importante della cultura russa, è frontiera, sia in senso geografico e orizzontale, sia in senso verticale: per Dostoevskij è il luogo della lotta del diavolo con Dio.
In Dostoevskij in dialogo con l’Occidente, il filosofo russo Vladimir Kantor mette a confronto l’anima russa e l’anima europea. Partendo dall’Inferno di Dante, si muove nel tema del peccato e del pentimento, della morte dopo la vita e della morte in vita. Molti universi, grandi e piccoli, persone reali e persone immaginarie, attraversano le pagine di questo saggio come luci gialle nella nebbia di Pietroburgo, città fantastica e del sogno: Papà Goriot di Balzac, Delitto e Castigo, Memorie da una casa di morti e Bobòk di Dostoevskij, Pietro il Grande e Lenin, Puškin e Gogol’, Marmeladov e Vautrin, Raskol’nikov e Rastignac, Platone e Freud, Zweig e Camus, Amleto e le streghe di Macbeth, Cristo e la libertà.
Dante pensava che sulla terra ci fossero i vivi, ma che i peggiori di loro potessero già subire il tormento dell’inferno; in Russia, Dostoevskij vedeva un nuovo tipo di esseri umani, vivi e morti contemporaneamente. Se l’eroe di Balzac vuole assoggettare il mondo, l’eroe di Dostoevskij lo vuole superare: Rastignac cerca il proprio tornaconto, Raskol’nikov – con l’accetta – cerca la giustizia. Là dove la vita ha perso il suo significato più alto, la persona umana precipita nella corruzione.
In questo saggio dal ritmo incalzante, Vladimir Kantor racconta una disgregazione dell’anima che la storia ha dimostrato essere terribile come l’inferno.
p. 160 | 15 euro | ISBN 9788887670875
LUCE E OMBRA. LEGGERE DANIELE DEL GIUDICE
(a cura di Alessandro Scarsella)

Gli scritti di Cristina Benussi, Gianfranco Bettin, Massimo Donà, Caroline Lüderssen, Claudio Magris, Alessandro Melchiorre, Bruno Mellarini e Alessandro Scarsella vengono qui proposti allo scopo di conservare non tanto un patrimonio di competenze maturate a contatto con i libri di Del Giudice, quanto lo spirito disinteressato con cui la premura intorno all’autore si manifestò nei giorni che precedettero la pandemia, presso l’ambiente accademico e presso la comunità dei letterati, prima che Daniele staccasse la propria ombra da terra.
Considerati come capitoli, questi saggi stanno anche a indicare, a futura memoria, percorsi di riflessione e di investigazione forse obbligati al fine di consolidare la conoscenza dei temi e dello stile di Del Giudice.
p. 152 | 12 euro
BRUNO MELLARINI, Tra spazio e paesaggio. Studi su Calvino, Biamonti, Del Giudice e Celati

Se è vero – come ha scritto Francesco Biamonti – che «è destino umano abitare un mondo», è altrettanto vero che le categorie di spazio e di paesaggio divengono i fondamentali strumenti ermeneutici per cogliere il senso della nostra posizione nel mondo, in una sorta di mapping infinito e inesauribile. Prendendo le mosse da una ricognizione filosofica dei concetti di spazio e paesaggio, visti e considerati dialetticamente, nelle loro reciproche implicazioni, nonché dalla rilettura di alcuni momenti chiave dell’opera di Calvino, si analizzano le forme della rappresentazione spaziale e paesaggistica in tre autori di “scuola” calviniana: Biamonti, Del Giudice e Celati. Emergono così approcci anche molto diversi, ma tutti in qualche misura accomunati dal riferimento a Calvino, la cui attività scrittoria si era svolta tra la gioiosa scoperta del paesaggio nativo e l’emergere, sulla scorta di un novecentesco spatial turn, di un interesse sempre più marcato ed esclusivo nei confronti della spazialità. Di qui le soluzioni, in parte divergenti, adottate dai tre scrittori: il paesaggismo modernamente aggiornato di Biamonti, che frantuma il paesaggio tradizionale restituendone echi e risonanze esistenziali; la rigorosa ricerca spaziale di Del Giudice, per il quale il paesaggio si riduce a pura archeologia, a inservibile reperto del passato; lo sguardo fenomenologico di Celati, l’autore che forse più di tutti cerca di rompere la dicotomia spazio/paesaggio per trovare nel concetto di luogo, inteso quale sintesi insolubile di spazio e tempo, un ancoraggio poetico ed esistenziale.
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Dario Boemia, I denti dell’arte. La letteratura entre-deux-guerres nell’«Italiano» di Leo Longanesi
Quanto ha segnato finora la sfortunata ricezione critica dell’«Italiano» fu quel sottotitolo che con varianti minime portò con sé fino alla fine: «Settimanale della gente fascista». Quando nel 1926 uscì il primo numero dell’«Italiano», Leo Longanesi non era ancora maggiorenne, ma portò avanti ostinatamente questo suo progetto fino al 1942. A nessun’altra delle sue riviste avrebbe dedicato se stesso come alla sua prima avventura di direttore. Ma l’’«Italiano» riceverà minor attenzione da parte della critica posteriore rispetto a «Omnibus» e al «Borghese».
Negli anni Trenta «L’Italiano» diede voce ai migliori scrittori della nuova generazione, quali Comisso, Moravia, Buzzati, Soldati, Tobino, Benedetti e Brancati. Evitando lo sperimentalismo e l’avanguardia, il foglio seppe nondimeno rivelarsi spregiudicato e moderno, fuggendo strenuamente quelle novità che sono i denti della letteratura e dell’arte: «servono solo per mangiare, ma ingialliscono e si perdono». Il risultato è una testata ricca di contraddizioni e di notevole fascino («L’Italiano si vende moltissimo, ed è seguito», scrive nel marzo 1931 all’amico Pellizzi), capace di accostare un testo di Mussolini a un racconto di Hemingway, poesie di Ungaretti ad aforismi dello stesso Longanesi, nonché in grado di far collaborare un antifascista pentito come Giovanni Ansaldo con il selvaggio Mino Maccari.
Questo libro prova a dar conto dell’idea di letteratura proposta dall’«Italiano», studiando i contributi dei suoi principali collaboratori ed esaminando il loro effettivo apporto alla fisionomia del periodico. Si tenterà, insomma, di restituire al lettore un quadro quanto più sintetico ed esauriente dell’identità di una rivista che, nelle storie letterarie , dovrebbe occupare almeno lo stesso spazio riservato a «Solaria».
15 euro | Cuma

Barbara Sturmar, «La mia fortuna non s’arrestò qui». Italo Svevo e le occorrenze del successo
Come si misura la fortuna letteraria?
Italo Svevo nutriva la speranza di essere accolto favorevolmente dalla critica e di riscuotere un largo successo di pubblico, ma i capricci del destino già si prefigurano nel percorso arzigogolato della sua scrittura.
Con i saggi presentati in questo volume, dove ebraismo e umorismo sono le assi portanti del discorso critico, Barbara Sturmar mira a scandagliare alcuni aspetti del Caso Svevo, ribadendo il potenziale analitico che il riconoscimento dell’identità giudaica getta sullo scrittore. Attraverso la maschera claudicante dello schlèmiel, l’accostamento tra Zeno e Charlot, le facoltà deflagratorie del riso, le analisi sul trattamento della Coscienza di Zeno di Giorgio Strehler e l’accurata regia di Mauro Bolognini, che portò Senilità sul grande schermo, si prova a rispondere al quesito iniziale. La fortuna sveviana è a tutt’oggi inarrestabile, l’ossimorico “silenzio eloquente” del Profilo autobiografico è stato definitivamente rettificato dal fragore inequivocabile degli applausi.
I lettori, assecondando i desideri del letterato triestino, si rispecchiano nel guazzabuglio dell’individualità profondamente umana dei suoi personaggi: non una mera imitazione dell’imperfezione, ma la fertile consapevolezza dell’incompiutezza e allo stesso tempo un tentativo di perfettibilità, intesa quale percorso di ricerca e di vita, dove il successo è l’aspirazione alla conservazione dell’originalità esistenziale.
12 euro | Cuma

ARNALDO COLASANTI, Notte purpurea. La poesia di Giancarlo Pontiggia
Questo libro è un libro morale e imperdonabile. Questo studio ruota attorno alla necessità radicale della poesia in quanto significato della vita. Queste pagine narrano l’esperienza di un critico che legge uno dei massimi poeti contemporanei, Giancarlo Pontiggia, per porre il nodo di una dilaniante questione: cos’è la poesia se non la coscienza del segreto della realtà? cosa sarebbe la nostra esistenza se la vita non fosse affidata al sogno, alla veglia, alla ragione febbricitante della conoscenza poetica?
Il saggio di Arnaldo Colasanti, scrittore e critico letterario, è l’analisi perentoria di sole due poesie che, pure, vengono pensate come varco per ritrovare l’antico e il futuro della lingua, la pura scommessa della contemporaneità, la sua tenerezza e il suo ardore, le fonti vive di Lucrezio o di Epicuro, di Mallarmé e insieme del più inquieto oggi, come del pieno Novecento. La critica di Colasanti è una rapsodia o forse uno Stabat mater, per dichiarare, ancora una volta, che in questi anni di vuoto e di irrisione, in quest’epoca svilita dalla presunzione dell’invidia sociale e dalle ferite del narcisismo, ciò che solo conta, quello che è il ruolo stesso della poesia, è la sua capacità di senso, è la sua grande arte del volo oltre le ideologie, la mediocrità, le chiacchiere quotidiane. Lo statuto di imperdonabilità e di esperienza etica non è che la sua stessa esistenza politica: la fede nuda nella poesia contemporanea come ascia contro l’aridità del mondo.
leggi un estratto:
15 euro | marzo 2020 | p. 248 | Cuma

MARCO FAZZINI, At the Back of my Ear. Essays on Poetry and Literary Crossings
This is one of those books that require a long gestation, and an even longer meditation. As any reader might realise, it is a continuous overlapping of layers and ideas that have been depositing their residues for more than thirty years. Most of the essays here collected have been moving not only through books, researches and quotations, but also through friendships, meetings and conversations.
Despite the long gestation, a common thread is crossing all the writings here presented: a desire to play with the voices of the Other because a confrontation with the other beings and poetic voices activates the counter-discursive ‘alienness’ of most of these poets’ messages. Inclusiveness, openness and acceptance of change are their main characteristics, both when they write about an unstable cultural system and when they try to innovate and subvert a whole literary tradition or a canon. From Livingstone’s first contributions to what might now be defined as ‘ecocritical’ poetry, to Burnside’s listening to the “song of the earth”, passing through Kenneth White’s innovative ‘environmental’ work on ‘geopoetics’, or through Morgan’s various voices, Dunn’s transgressive vision of truth, and MacCaig’s insistent dialogue with external linguistic and natural realities (read: the Scottish landscape) – all the poets discussed here have put into question the ambition of sharp dialectics and contributed to let us be nearer to the meaning and the power of the cosmos, even when they ‘speak out’, beyond the violence and the corruption of a humanity on the verge of disaster, incapable of learning from its own mistakes.
This book contains essays on the following poets:
Norman MacCaig – Lawrence Ferlinghetti – Edwin Morgan – Derek Walcott – Douglas Livingstone – Geoffrey Hill – Amiri Baraka – Kenneth White – Seamus Heaney – Douglas Dunn – South African poetry and Guy Butler and Chris Mann – John Burnside
Euro 14 | Collana Cuma

GIOVANNI TURRA, Continenti stati d’animo. Letteratura di viaggio e letterature straniere nell’«Omnibus» di Leo Longanesi
Continenti stati d’animo studia il rotocalco «Omnibus», fondato e diretto da Leo Longanesi dal 1937 al ’39, chiarendo un disegno culturale coerente e preciso, poco conforme con le direttive della propaganda. La strategia editoriale di «Omnibus» s’informava alle due categorie a suo tempo individuate da Sciascia: quella del «guardare altrove» e quella del «conferire un che di durevole all’effimero». Cecchi e Moravia dagli Stati Uniti, Alvaro dall’Unione Sovietica, Monelli dalla Germania, Savinio dalla Francia derivavano infatti i loro reportage da ragioni diverse da quelle che di norma motivano quel genere di scrittura, e miravano piuttosto alla verifica di un metodo o alla conferma di un’ipotesi. A sfogliarlo oggi, ci si accorge che «Omnibus» è il più ampio repertorio di vita nazionale mai tentato durante il ventennio fascista.